Iran, dove il sogno pare avere il sopravvento con il suo colore preferito: il blu. Negli smalti e nelle ceramiche delle moschee, nella maestosità dei portali a stalattiti che gareggiano coi minareti ad indicare il cielo, nei mosaici dove ogni tassello è unico in un intricato andamento di geometrie, di spirali verso l’alto che, per chi guarda, diventano l’inizio di un viaggio quasi ipnotico, sicuramente mistico, verso Dio. O verso la poesia, secondo il credo. Le ripetizioni di quelle spirali, le perfette geometrie di quei disegni, i colori intarsiati che si intrecciano nei soffitti di quelle moschee rappresentano, oltre che capolavori d’arte, il concretizzarsi di una religiosità che ha permeato per secoli il vivere quotidiano. E le simmetrie geometriche e floreali dei più bei tappeti del mondo sono lì ad evocare l’armonia del giardino persiano ma anche del creato, oppure temi religiosi. Tappeti di preghiera e anche di uso domestico che possiamo immaginare prodotti da tessitori nomadi, spesso donne, con i loro telai “da trasporto” già oltre 2000 anni fa. Magia della tradizione artigianale oggi diventata per l’Iran la seconda voce di esportazione dopo il petrolio. Passeggiando per i bazar, nonostante la folla solitamente presente, si nota un acquisto composto, quasi silenzioso, una contrattazione sottovoce, senza le urla dei bazar arabi o dei mercati dell’Italia del sud.
Isfahan, “la metà del mondo”, splendida fra il sogno e la magìa racchiusi nella grande piazza imperiale, nelle moschee (splendida quella Lotfollah col suo soffitto cesellato come un cielo illuminato di stelle su cui, con i raggi del sole, si irradia una luce a forma di coda di pavone); nei giardini, su ponti antichi sapientemente illuminati nelle tiepide notti, dove la gente si raccoglie a cantare o ad osservare con affetto e rispetto “il fiume che dona la vita”. Giovani cantori di talento invitano a partecipare al canto di antiche ballate popolari. Qui ci si rilassa, si socializza, si mangia con la famiglia il cibo portato da casa. Saggezza della tradizione popolare.
Shiraz, la città di un sapere che si nutre d’immaginazione e di emozioni, dove il sogno si materializza nel profumo dei giardini, delle rose, così come a Kashan, e nell’ombra dei maestosi secolari cipressi che paiono rappresentare l’aspirazione alla vita eterna oltre che alla bellezza terrena: il paradiso. Shiraz, città di moschee (incredibile la Moschea Rosa dove attraverso piastrelle rosa e vetrate colorate si ricrea un caleidoscopio di luci quasi futurista). Città di santuari e hammam, città di astronomi e matematici e soprtattutto di poeti. Il più grande di questi, Hafez, qui venerato quasi come un dio, il cui sepolcro è meta di pellegrinaggi. Poeta cantato e musicato da secoli, citato forse quasi quanto il Corano e i cui versi accompagnano il destino della gente. Versi traboccanti di gioia di vivere, di amore terreno e spirituale.
Bellissima Yazd, il cui suggestivo centro è uno dei più antichi del mondo, in cui i mattoni di fango e paglia delle case donano quel colore dorato così suggestivo soprattutto verso il tramonto quando si fonde con il colore dei due deserti circostanti. E che dire delle numerose torri del vento, dita protese verso il cielo a raccogliere anche il più piccolo alito di vento nel caldo torrenziale delle estati desertiche. Vento ristoratore ma anche acqua salvifica che ha consentito la vita nel deserto, oasi, giardini, vasche ornamentali, frutteti. Acqua raccolta grazie all’ingegno umano: i canali sotterranei, formidabile e poco visibile esempio di ingegneria idraulica consolidata da almeno 2000 anni, ancora funzionanti a Kashan e a Mahan.
Persepoli, edificata da operai e artigiani pagati e non da schiavi, è l’idea incompiuta di grandezza, materializzata nella maestosa città-palazzo da Dario il Grande, ereditata da Ciro il Grande, il fondatore del grande Impero Achemenide di Persia che liberò gli Ebrei dalla schiavitù di Babilonia. Un altopiano inaridito dal sole e dal gelo degli inverni, dove si è fatta una parte importante della storia del mondo. Il Palazzo di Primavera creato per celebrare le feste di inizio anno era la summa dell’architettura e della scultura del tempo. Distrutta da Alessandro Magno come vendetta per il saccheggio di Atene durante le guerre persiane. E che dire delle monumentali tombe rupestri di Dario I e II, Serse, Artaserse scavate in pareti verticali di roccia rosa, che ricordano le atmosfere di Petra in Giordania?
Ma soprattutto: la gente. Integralisti dell’accoglienza, fanatici dell’ospitalità con le loro armi di accoglienza di massa e minacciose offerte di tè. Cordialità, simpatia, sorridente curiosità e desiderio di conoscere l’opinione dell’ospite straniero, ci hanno fatto sentire ospiti graditi all’interno di una comunità che bandisce la solitudine. Ognuno può sentirsi parte di un tutto, parte del creato. Qualcuno ha scritto, con ragione: ”dall’Iran si ritorna più gentili”.
Prima dei saluti torno a Shiraz, alla tomba-giardino di Hafez, dove l’amico Massoud ha letto, commosso, fra il tramonto e la notte, alcuni versi del grande poeta. Ripercorro quel momento quasi a celebrare con lui il rito del faal-e Hafez: l’interpretazione del proprio destino traendo spunto dalla lettura di alcuni versi dell’Usignolo di Shiraz in una pagina aperta (non) a caso: “Scorra, scorra per sempre questo nostro ruscello, che fa, con le sue limpide acque, senza fine la vita. Fra i sereni abitati e le liete radure lo zefiro fresco, dell’ambra, ha il profumo. Vieni a Shiraz tra la sua gente a cercare grazie celestiali”.
Tiziano Ferretti